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mercredi, 14 avril 2010

Forme della personalità umana nell'Ellade

Forme della personalità umana nell’Ellade

Autore: Nuccio D'Anna

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

leonida.jpgUno degli aspetti più caratterizzanti nello studio dell’Iliade e dell’Odissea è la scoperta delle modalità da parte di tutti i personaggi che hanno un rilievo narrativo, di “entrare” in se stessi e di dialogare non solo con gli dèi che si svelano in ogni aspetto dell’accadere umano, ma anche di scrutare i propri sentimenti, di “guardare” il vasto mondo che si muove nella vita interiore. E’ una realtà particolare, non facilmente rinvenibile in altre civiltà antiche e tale da spingere alcuni studiosi del mondo ellenico ad ipotizzare una particolare capacità percettiva, probabilmente caratterizzante l’intero popolo ellenico, tesa a dare significato al senso vivo della personalità umana che già alle origini di quella civiltà ne ha reso unica la visione del mondo.

Agli albori del mondo ellenico l’uomo rappresentato da Omero ci rivela immediatamente quello che è stato definito “il suo vigile e chiaro pensiero“, una speciale capacità di guardare il mondo in modo impersonale pur avendo consapevolezza del valore del proprio Io in quell’atto essenziale, e poi di esprimere un giudizio che tiene conto contemporaneamente della realtà esteriore, della libertà insita in ogni scelta, del fatto che ciò che ne sostanzia il significato è la persona del singolo, l’uomo libero. Per esprimere questa tendenza profondamente connaturata, gli Elleni usavano il termine εύλάβεια = “circospezione”, “cautela”, che invitava ad un atteggiamento di prudente azione, di misurato rapporto prima con gli dèi, poi con il vasto mondo, infine con la comunità degli uomini. Un atteggiamento profondamente vissuto di misurato equilibrio rendeva ogni Elleno incapace di mostrare una eccessiva espansività e dava forza ad ogni loro atto nel quale si riteneva che i sentimenti dovessero dimorare come la sostanza dell’agire umano.

E’ la tragedia greca che rivela questo aspetto particolare del vivere. Qui l’uomo è continuamente messo di fronte a se stesso, alla grandiosità di sentimenti in grado di abbracciare il vasto mondo, ad emozioni che molto spesso sembrano caricarsi di un peso insopportabile, ma che nel punto in cui il protagonista li incanala nell’alveo della tradizione e li articola nella complessa sua vita interiore, risultano essenziali per la valorizzazione di sé, diventano la base per capire il significato del mondo e lo stesso “agire” degli dèi.

Nella stessa poesia lirica i vari poeti manifestano per la prima volta un senso della propria individualità che è un segnale della vivacità intellettuale di quel tempo. Essi parlano di sé, fanno persino conoscere il proprio nome, “esistono” come persone individuabili, con aspirazioni e ideali che differenziano ognuno di loro dagli altri e li caratterizzano come individui coscienti di una personalità irripetibile. Non basta dire che la lirica greca è strettamente legata a forme poetiche pre-letterarie, forse derivate dalla tradizione compositiva scaturita dal mondo del sacro, le cui radici affondano nei canti dei danzatori sacri, nei peana che arricchivano la vita rituale dei vari santuari, oppure nelle stesse canzoni popolari e contadine “ordinate” attorno a ritmi di un mondo antichissimo, tutto un insieme tradizionale che, come ha fatto notare Louis Gernet, costituiva l’elemento fondamentale della vita rituale del primitivo mondo ellenico. Quando la poesia lirica giunge al suo momento di maturità, l’individualità del poeta è chiara, non c’è nessuna possibilità di confondere le poesie di un Alceo con quelle di Saffo, le nitide descrizioni di un Anacreonte con quanto scrivono Bacchilide, Simonide o Stesicoro. Ognuno di loro canta ciò che lo distingue dagli altri e lo rende unico, irrepetibile; il canto è il frutto di una individualità che esprime un mondo interiore e un fluire di sentimenti assolutamente “personale”. La coscienza della propria personalità e del proprio mondo interiore non solo è chiaramente affermata, ma diventa il segno distintivo capace di valorizzare ogni uomo, anche coloro che ascoltano solamente questi canti, ognuno vi ritrova aspetti fondanti della propria vita interiore. Non c’è destino o fato che possa impedire all’Elleno di attingere a questo suo pulsare interiore, dove i sentimenti, gli impulsi e i valori tradizionali sono vissuti secondo modalità irripetibili, si incontrano, danno vita alla personalità individuale, ad un essere umano “completo”.

La grande filologia dell’Ottocento riteneva che nei due grandi poemi delle origini elleniche la coscienza dell’Io fosse poco evidente, qualcuno addirittura ne negava la presenza anche se l’ira di Achille, il ruolo di Ulisse, quello di Patroclo, di Ettore e di tanti altri sembravano smentire con ogni evidenza queste affermazioni, verosimilmente scaturite da una visione evoluzionistica della vita incapace di ammettere che poemi tanto antichi contenessero già tutto ciò che i filologi positivisti ritenevano caratteristico dell’uomo razionale ed “evoluto”, insomma, “moderno”. Ma la primitiva esperienza filosofica greca, la lirica, la tragedia e la stessa commedia ci dicono che la percezione dell’Io per l’Elleno era un fattore essenziale del suo modo di vedere l’universo, di percepire la vita del cosmo, di sperimentarne i ritmi, di guardare con un occhio che andava a penetrare lo stesso significato del vasto mondo.  Da ciò la varietà di termini, tipica del vocabolario ellenico, per esprimere l’atto del “vedere”, verbi che da una percezione puramente fisica a poco a poco ci trasportano in un ambito carico di significati astratti,  poi di simboli, di valori, di spiritualità. L’Elleno classico riteneva che questo suo sentimento dell’Io doveva essere vissuto fino in fondo, percepiva una distanza incolmabile fra ciò che lo caratterizzava in modo irripetibile e gli uomini che vivevano attorno a sé e sperimentavano un identico sentimento della propria specificità. Non concepì l’Io come un limite da controllare o da sopprimere, ma come un valore fondamentale capace di rendere irripetibile la stessa esistenza, caratterizzante anche le personalità divine, persino il modo di essere degli stessi dèi olimpici.

La tragedia ci rappresenta spesso un personaggio-eroe di fronte all’enigma di  sconosciute potenze estranee alla propria vita quotidiana che vorrebbero condizionarne l’esistenza, obbligarlo a scelte non appartenenti alla sua interiorità, al suo naturale atteggiarsi come un essere libero posto di fronte al vasto mondo. In questi momenti l’Elleno attinge al suo Io che “vuole”, alla volontà di determinare la stessa esistenza, di restare fedele al destino che gli è stato assegnato, di non abbandonarsi, di esigere da sé non solo il totale controllo della propria vita, ma anche di affrontare la morte, il momento ultimo dell’esistenza, con la consapevolezza di aver vissuto l’”attimo” irripetibile che è l’essere se stessi forgiando il proprio capolavoro, la propria esistenza. Per questo la sua appartenenza alla polis, ad una comunità completa ed organica, non diminuiva il senso dell’Io, il valore assegnato ad una interiorità ricca e variegata, ma si riteneva che la persona umana e la “ricchezza” di valori che ne distingueva il modo di essere, doveva essere in grado di completarsi nella vita sociale, non di spegnersi o annegare in un  “collettivo statale”.

Questo spiccato senso dell’Io ha una particolarità: il differenziare il soggetto da  un oggetto posto fuori da chi contempla la natura con sue leggi specifiche, non assimilabili a quelle dell’uomo, comporta la capacità di interpretare le leggi di quel mondo, di enucleare una loro formulazione, di astrarre dall’esperienza unica ed irripetibile del singolo delle definizioni logico-razionali che ne dovranno fare capire il significato e le costanti valide non solo per chi ha sperimentato questa capacità, ma anche per coloro che non ne sono consapevoli e restano ai margini della sua ricchezza analitica e descrittiva. Nasce la volontà di astrarre concetti logici, e dunque leggi valide universalmente quand’anche non se ne sappia comprendere il processo costruttivo. La filosofia e la scienza ellenica, il primo risultato di questa attitudine astrattiva, presuppongono un Io che analizza, si pone come soggetto riflessivo che astrae dall’esperienza contenuti ormai spesso persino estranei all’etica e al mondo del sacro. Affiora la prima esperienza di un pensiero laico.

Nella civiltà ateniese che raggiunge il sua apogeo al tempo di Pericle, la consapevolezza del valore della libertà umana è piena e condivisa. La libertà viene considerata un valore oggettivo al quale non è assolutamente possibile rinunciare se non perdendo la propria identità di uomo. E tuttavia Pericle non teme di proclamare che il limite di questa libertà sta nelle leggi che strutturano l’ordinamento giuridico e danno definizione appropriata alla libertà civica, che indirizza ognuno ad essere non solo un uomo libero, ma un cittadino libero che assieme ad altri suoi eguali esercita il proprio diritto. Il rischio di un ordinamento politico come quello dell’Atene del V secolo era che nel punto in cui cessava di essere tutelato da una personalità eccezionale come quella di Pericle, si potevano verificare forme di sfaldamento verso un individualismo esasperato che poteva condurre non solo alla decadenza dello stato, ma al suo diventare preda di avventurieri affascinanti. E’ quello che accadde alla morte di Pericle nella temperie particolare succeduta alla fine delle guerre peloponnesiache, la “guerra civile” del mondo ellenico che condusse gradatamente alla perdita della libertà e alla sottomissione all’impero macedone.

La consapevolezza del valore dell’individualità umana, il dovere di agire secondo coscienza e in piena libertà, non porta l’Elleno a staccarsi dai valori religiosi che ne sostanziano l’esistenza e nel quotidiano arricchiscono la sua vita comunitaria, i ritmi della convivenza cittadina. Quella “legge divina” il cui valore fu potentemente tratteggiato nelle tragedie di Eschilo, attraversa ogni aspetto della vita del singolo e della comunità cittadina (“tutte le leggi umane traggono nutrimento dall’unica legge divina”, egli ci dice), e non c’è abitante della Grecia arcaica, dal più umile dei contadini al più arrogante dei governanti che non ne sia stato consapevole.

Anche se i Sofisti cercarono con i mezzi della dialettica e con una parola onnipervadente di fare sperimentare una diversa dimensione dell’Io completamente staccata dai valori tradizionali; anche se molti membri dell’élite nobiliare ateniese pensarono di aderire a questa nuova realtà capace di svincolare l’Io da ogni legame rituale, di appartenenza o di eredità, la gran parte degli Elleni non si riconobbe in questa nuova predicazione che commisurava ogni cosa alla capacità di persuadere con la parola, di ammaliare, di rendere non significante ogni valore, il vivere individuale e la stessa comunità cittadina tutta. In un’epoca nella quale sembrava trionfare la ricchezza e il potere, Socrate volle ricordare che i valori reali non stavano nell’apparenza e nell’arbitrio individuale, ma nel valore che l’uomo assegnava a se stesso. Socrate valorizza il sentimento dell’Io in rapporto all’interiorità umana, alla ricchezza che riteneva di trovare nell’animo umano e alla possibilità di scoprire il Bene come un elemento essenziale e assolutamente primario nella vita dei singoli e della realtà comunitaria. Certo, il suo insistere nel dialogo con tutti per cercare quella che sembrava l’irraggiungibile verità, poteva farlo sembrare simile ai Sofisti, apparentarlo al loro modo di essere, alla loro sfrenata dialettica, e Aristofane non mancò di ridicolizzare questi aspetti del metodo educativo di Socrate. E tuttavia la sua ricerca ha un fine, mira a stabilire una precisa condizione interiore dell’uomo, a fare emergere una certezza nella quale il Bene si identifica con la coscienza dell’uomo retto. E’ una scoperta dalle conseguenze importanti che Platone non mancherà di sviluppare. Il giusto non può più sottrarsi alla verità che affiora nella propria anima, una verità che vive della certezza di azioni pure e rette, si alimenta nel rispetto della propria interiorità, si nutre di una giustizia non più delegata alle istituzioni, ma resa viva da una vita vissuta come conformità al Vero e al Bene. La grandezza della morte di Socrate, il Giusto che affronta il proprio destino pur nella consapevolezza della sentenza ingiusta decretata da un tribunale ostile e di parte, conclude una vita vissuta secondo giustizia e senza tentennamenti: l’ingiustizia (=la fuga dalla prigione preparata dai suoi discepoli) non può sostituire l’altra ingiustizia, quella che hanno orchestrato i suoi nemici condannandolo a morte. Socrate dimostra con la propria morte accettata consapevolmente e con virilità, che il rispetto delle leggi della patria non deve ridursi ad un atto esteriore “obbligato” dalla forza dello stato, ma è un “modo di essere” scaturente da una forma interiore, dalla consapevolezza che il Giusto coincide con il Bene e dimora nell’animo dell’”uomo nobile”. La legge non è una norma empirica creata per regolamentare una astratta comunità, ma è la “forma formante” della vita degli uomini liberi. L’uomo che vive della propria ricchezza interiore, si nutre di un’etica capace di rendere la vita degna di essere vissuta, non può eludere il richiamo della giustizia. Anche quando ogni cosa parrebbe giustificare la trasgressione e gli altri uomini approverebbero.

E tuttavia, per quanto attento al valore della persona, alla ricchezza dell’interiorità umana, alla consapevolezza che ogni uomo vive in rapporto con una comunità cittadina, in Socrate non troviamo una compiuta dottrina dello Stato e dei rapporti fra i cittadini. Pur nella viva e straordinaria attenzione al senso della comunità e al valore delle leggi comunitarie che l’uomo libero ha scelto, non c’è in Socrate una dottrina dello Stato, almeno non ne è rimasta traccia nelle testimonianze arrivate fino a noi. La sua attenzione al Bene come valore essenziale che giustifica il significato dell’esistenza umana, non si traduce in una riflessione compiuta sul “bene comune”, sulla società e le sue istituzioni.

L’arcaica società ellenica era arrivata alle forme di vita nella polis dopo un lungo processo che aveva trasformato antichissime tradizioni cui erano legati tutti i popoli dell’Ellade. Al centro della vita familiare troviamo il padre che nell’età arcaica copriva aspetti pontificali connessi alla sua funzione di sacerdote domestico. La madre, invece, era la garante della perpetuità del recinto familiare, del prolungamento nel tempo della famiglia, non una somma di individui legati da sentimenti, ma un tipo particolare di confraternita sacra diretta dal capo-famiglia che ne officiava i riti ancestrali conservati con cura e gelosamente custoditi e trasmessi da padre in figlio. Più all’esterno c’era il genos, costituito da tutti i “rami” che praticavano lo stesso rituale e spesso si riunivano attorno ad una tomba-ara gentilizia. La tribù riuniva una serie di genos attorno ad un culto unitario che veniva celebrato da tutti i membri nell’anniversario dell‘eroe eponimo. Quando le tribù elleniche cominciarono ad urbanizzarsi è evidente che tali ordinamenti poggianti su strutture gentilizie e familiari, non potevano più reggere e fu necessario un riadattamento sfociato in quella particolare struttura sociale da Aristotele definita il governo dei “liberi governati”.

Hoplites.jpgLa prospettiva politica di Aristotele muove dalla constatazione che l’organizzazione statale è la condizione stessa del vivere civile. E’ all’interno della polis che l’uomo può soddisfare non soltanto i suoi bisogni materiali, ma anche quelli morali solo che riesca ad equilibrare la libertà della comunità cittadina con la norma o costituzione che regola la vita civile, realizzando la concordia fra i membri dello stato, concordia che permette la partecipazione di “diritto” e di “giustizia” alla vita pubblica. Aristotele non fa altro che teorizzare la vita cittadina nella sua dimensione etica, analizzando oggettivamente una realtà politica ritenuta ormai “normale”. Nella vita comunitaria l’uomo può adempiere a funzioni altrove impossibili; solo nella realtà sociale si concretizza interamente una armonica maturazione della persona umana; solo in rapporto agli altri è possibile commisurare la grandezza di un essere libero. E’ questa dimensione che rende “vera” la celebre definizione di Aristotele secondo cui “l’uomo è un animale sociale”, nella sua interezza concepibile solo in rapporto agli altri uomini e alle istituzioni datesi liberamente da tutti i cittadini. Si tratta di una prospettiva particolare, che in sè rappresenta una novità rispetto ad altre elaborazioni di tipo politico che i vari pensatori greci non avevano mancato di elaborare. Si pensi a questo proposito a Platone e ai fondamenti dello stato da lui delineati, alle tre “classi sociali” che sostanziano il suo ideale di uno stato armonico, un ideale che G. Dumézil ha ritrovato in tutte le civiltà derivate dalla preistoria indoeuropea. Si pensi a questo proposito ai vari legislatori ellenici che in età arcaica, al sorgere delle città, ne hanno dettato i fondamenti giuridici e hanno costituito molto spesso l’elemento fondante delle molte colonie nate dalle ondate migratorie condotte all’insegna della spiritualità apollinea.

C’è in Platone una preminenza dello stato rispetto ai cittadini giustificata nella prospettiva dello “stato ideale”, di un ordinamento ideale che si ritiene possa essere il solo a conservare l’eredità più antica dell’Ellade, agli occhi di Platone l’unico in grado di garantire l’equilibrio del corpo sociale. Nelle sue tre opere politiche, la Repubblica, Le Leggi e il Politico, lo stato è la “forma” capace di dare ordine ad una sostanza=demos che lasciata a se stessa rischia di restare amorfa poichè in sé contiene elementi di dispersione e di disordine che impediscono ogni pur piccolo tentativo di erigere una società ordinata. E’ anche per questo motivo che lo stato ideale di Platone diviso nelle sue tre “classi sociali”, non fa che riflettere le tre “potenze dell’anima” che costituiscono il complesso della vita interiore di ogni uomo retto. L’ordinamento dello stato ideale, quello che probabilmente doveva attualizzare sul piano filosofico una arcaica consuetudine un tempo ben viva presso tutti i popoli indoeuropei, oggettiva l’armonia che regge la vita dell’uomo arcaico, un “corpo sociale” capace sul proprio piano di riprodurre la gerarchia delle “potenze” che ritmano la vita interiore dell’organismo umano.

La prospettiva delle Leggi è diversa. Platone qui sembra più attento a dare indicazioni perché si formi uno stato che nella realtà delle condizioni decadenti della Grecia del suo tempo possa adempiere alla sua funzione formativa, uno stato capace hic et nunc di enucleare le leggi e gli ordinamenti che devono essere come la “spina dorsale” di un corpo vivo il cui compito continua ad essere quello di dare “forma” all’informe. Proprio per queste ragioni qui è possibile trovare alcuni cenni a tradizioni antichissime nelle quali predominavano aspetti iniziatici che intendevano trasformare il giovane in un guerriero pienamente integrato nella propria comunità. A questo proposito è forse utile fare un cenno a Sparta e alla sua struttura cittadina per le oggettive similitudini che è possibile rinvenire con alcuni aspetti delle dottrine platoniche. L’ordinamento elaborato da Licurgo, che si incentrava sulla supremazia degli Spartiati e sulla selezione più rigorosa per ottenere un’élite dirigente presso la quale le caratteristiche guerriere dovevano essere assolutamente predominanti, non era altro che il tentativo di perpetuare in una società urbanizzata, strutture iniziatiche appartenenti al passato guerriero delle tribù doriche che in un’epoca ormai confinata nel mito avevano invaso il Peloponneso. Non si tratta solo della rigida educazione guerriera che, d’altronde, anche le altre città elleniche possedevano e aveva formato quei magnifici combattenti che avevano fermato l’assalto dei Persiani salvando la civiltà ellenica. Il fondamento statale spartano restava il rigido senso della comunità, la preminenza data allo stato e alla patria, la consapevolezza che la libertà del singolo non significava nulla fuori di quel contesto comunitario, il senso della custodia di valori antichissimi trasmessi mediante metodi educativi i quali, quanto ai fini, in parte è possibile trovare anche in altre aree culturali.

La prospettiva di Aristotele, questo straordinario discepolo sostanzialmente “infedele” di Platone, tuttavia è cambiata. Al centro della sua riflessione non c’è più lo stato, il genos, la fratrìa o le arcaiche famiglie con i loro culti e i loro rituali ancestrali. Lo stesso stato acquista un rilievo particolare, perde la sua preminenza sulla società e diventa l’elemento di coesione e di identità della comunità cittadina. Al centro ora troviamo il cittadino di una città che molto spesso ha eliminato tutte le tracce degli ordinamenti antichi e che non intende più ordinarsi attorno alle tradizioni custodite dalle famiglie patrizie. E’ un rivolgimento che rende molto diversa la prospettiva aristotelica e giustifica la sua attenzione al cittadino senza radici di una città cosmopolita e tesa ad aperture verso mondi nuovi che necessariamente in antico non era possibile neanche concepire. Il cittadino deve esplicare la sua libertà individuale nell’ambito di ordinamenti liberamente accettati e condivisi, deve vivere una vita sociale che è come il segno distintivo della sua ricchezza creativa, deve concorrere ad ordinare il mondo circostante e i suoi concittadini con piena aderenza allo spirito e alla lettera delle leggi, ormai diventate la vera  “ossatura” dello stato, alle quali egli stesso ha concorso.

Secondo Aristotele l’unità dello stato e la concordia dei cittadini, ossia l’equilibrio dell’organismo che egli ha in vista, non può essere conservata a lungo se le famiglie e i gruppi sociali sono economicamente dipendenti, se vige un sistema economico incapace di garantire l’autonoma esistenza dei vari corpi sociali e dei singoli cittadini. L’enucleazione del principio della proprietà privata come elemento assolutamente indispensabile per il libero esercizio della libertà individuale è uno degli elementi che danno alla dottrina aristotelica dello stato quei caratteri di “modernità” che da sempre ne hanno reso importante lo studio e la riflessione. I proprietari, sostiene Aristotele, proprio per la loro attività amministrativa, sono abituati a rispettare il diritto, a chiedere che le leggi abbiano una definizione chiara e non discussa, a decidere autonomamente e liberamente l’utile per se stessi e per la comunità cittadina tutta. L’attenzione aristotelica per questi aspetti della libera espressione della personalità umana, in sé una forma di “allargamento” e di consolidamento dello spazio di libertà individuale, si potrebbe definire come una prima delineazione di forme di sussidiarietà che solo le moderne encicliche papali hanno sviluppato in modo consequenziale.

E tuttavia il cittadino-proprietario che intende rimanere estraneo alla vita politica della propria città non può far parte del sistema politico che Aristotele ha in mente. Il cittadino deve partecipare delle decisioni politiche, il suo contributo alla vita comunitaria costituisce uno dei momenti essenziali della sua stessa vita di uomo libero, ne contrassegna il modo di essere e alcune delle stesse finalità esistenziali. L’ideale pan-ellenico del “governo dei governati” non può realizzarsi se non nel presupposto di un cittadino libero che esprime il proprio punto di vista, partecipa alla vita sociale e concorre alle decisioni dello stato. L’assunzione di responsabilità è insita in questa condizione di libertà individuale. Non potrebbe esserci per Aristotele un governo rappresentativo al quale delegare la vita legislativa. Non c’è delega che il cittadino della polis possa accettare, egli deve concorrere liberamente alla formazione delle leggi, ne deve vedere i risvolti, persino convincere gli altri di eventuali errori: il dialogo sociale è la forma della partecipazione diretta in un organismo che ha eretto al centro della propria esistenza un sistema di valori da tutti condivisi.

Nuccio D'Anna

lundi, 15 mars 2010

Platon et les trois fonctions indo-européennes

Platon et les trois fonctions indo-européennes

platon.jpgEx: http://tpprovence.wordpress.com/ 

On trouve de tout chez Platon, comme au rayon bricolage du BHV (à ne pas confondre avec le BHL, où l’on ne trouve rien d’autre que le vide abyssal de la non-pensée nombriliste) : le mythe de la caverne, l’Atlantide et même … les trois fonctions indo-européennes.

LES TROIS FONCTIONS CHEZ LES INDO-EUROPÉENS

C’est Georges Dumézil qui a découvert, en 1938, l’existence d’une véritable « idéologie » indo-européenne, d’une structure mentale spécifique se manifestant par une même conception du monde. « Suivant cette conception, que la comparaison de documents pris dans la plupart des vieilles sociétés indo-européennes permet de reconstituer, écrira-t-il, tout organisme, du cosmos à n’importe quel groupe humain, a besoin pour subsister de trois types hiérarchisés d’action, que j’ai proposé d’appeler les trois fonctions fondamentales : la maîtrise du sacré et du savoir avec la forme du pouvoir temporel qu’elle fonde, la force physique et la valeur guerrière, la fécondité et l’abondance avec leurs conditions et leurs conséquences » (1).

Sur le plan social, l’on retrouve cette tripartition dans tout l’espace indo-européen, de l’Inde à l’Irlande, les trois fonctions correspondant schématiquement aux prêtres-rois, aux guerriers ainsi qu’aux producteurs, paysans et artisans. C’est ainsi que dans l’Inde traditionnelle les Brahmânes correspondent à la 1ère fonction, les Kshatriyâs à la 2 ème et les Vaishyâs à la 3 ème. A l’extrême ouest de l’aire couverte par les indo-européennes, chez les Celtes, César nous apprend que la société gauloise se composait des Druides, des Equites ou Chevaliers, et de la Plebs, le Peuple…

Reste le cas de la Grèce antique, qui a tendu très tôt à éliminer toute trace de l’idéologie trifonctionnelle. Si l’on en croit Dumézil, « la Grèce n’est pas généreuse envers nos dossiers. M. Bernard Sergent a fait un bilan critique des expressions de la structure des trois fonctions, la plupart du temps isolées, en voie de fossilisation, qu’on a proposé d’y reconnaître : c’est peu de chose, comparé aux richesses qu’offrent l’Inde et l’Italie » (2). Toutefois, un lecteur attentif de l’œuvre de Platon peut y découvrir la preuve d’une survivance de la tripartition fonctionnelle dans la Grèce classique.

LA CITÉ IDÉALE PLATONICIENNE

Dans La République, Platon, s’interrogeant sur la cité idéale, affirme que « les classes qui existent dans la Cité sont bien les mêmes que celles qui existent dans l’âme de chacun pris individuellement » (3). Au terme d’une analyse psychologique de la nature humaine, le philosophe grec reconnaît dans l’homme trois sortes d’âmes ou de dispositions à agir : la raison, située dans la tête, qui lui permet de penser ; le sentiment, situé dans le cœur, qui conduit à aimer ; et le désir, situé dans le ventre, qui le pousse à se reproduire. Elles impliquent trois vertus qui représentent l’excellence de chacune des âmes : la sagesse, le courage et la tempérance. Selon lui, la constitution de la cité n’est que la projection de la constitution de l’âme soumise à son exigence de justice, cette dernière étant à son tour, l’articulation harmonieuse des trois vertus.

Concrètement, le philosophe distingue au sein de la cité trois fonctions. D’abord, « ceux qui gardent entièrement la Cité, aussi bien des ennemis de l’extérieur que des amis de l’intérieur » (4), les Gardiens, qui correspondent à la tête, siège de l’intelligence et de la raison, le Logos. Ensuite,  « les auxiliaires et assistants des décisions des gouvernants » (5), qui correspondent au cœur, siège du courage, le Thymos. Enfin les Producteurs, artisans et paysans, qui correspondent au ventre, siège des appétits. « Vous qui faites partie de la Cité, précise Platon,vous êtes tous frères, mais le dieu, en modelant ceux d’entre vous qui sont aptes à gouverner, a mêlé de l’or à leur genèse ; c’est la raison pour laquelle ils sont les plus précieux. Pour ceux qui sont aptes à devenir auxiliaires, il a mêlé de l’argent, et pour ceux qui seront le reste des cultivateurs et des artisans, il a mêlé du fer et du bronze » (6).

« Une cité semble précisément être juste, souligne Platon, quand les trois groupes naturels présents en elle » exercent « chacun sa tâche propre » (7). Effectivement, de même que l’homme doit soumettre le ventre au cœur, puis le cœur à la raison, les arts qui sont au service du ventre doivent être soumis à l’art des guerriers, qui lui-même doit obéir à celui des magistrats, c’est à dire à la Politique – cette dernière étant inséparable de la philosophie, car les magistrats doivent être philosophes. Il distingue également trois sortes de régimes politiques, dont chacun est lié à l’une des fonctions de la cité et, par conséquent, à l’une des parties et des facultés de l’organisme humain : la monarchie, ou gouvernement d’un seul, et l’aristocratie, gouvernement des meilleurs, régimes commandés par la raison ; la timocratie, ou gouvernement des guerriers, est quant à elle commandée par les passions nobles, celles du cœur ; enfin la démocratie, ou gouvernement du plus grand nombre, régime caractérisé par les passions les plus basses de l’âme humaine et les appétits matériels…

Pas de doute : cette cité idéale platonicienne reposant sur trois classes strictement hiérarchisées, reproduit l’organisation traditionnelle de la société en trois fonctions propre aux indo-européens. En effet, dans une Grèce qui semble avoir totalement oublié la tripartition, Platon confie la vie politique de la cité à des philosophes-rois ,les Gardiens, assistés d’une caste militaire, les Auxiliaires, qui règnent sur les basses classes productives.

Platon est convaincu que seuls les Gardiens, c’est-à-dire les sages, ont la capacité d’user équitablement de la raison pour le bien commun, alors que les hommes ordinaires ne peuvent s’élever au-dessus de leurs passions et de leurs buts personnels. En contrepartie, les membres de ce qu’il faut bien appeler la caste dirigeante doivent mener une vie entièrement commune, sans propriété privée ni famille, autant d’éléments de tentation égoïste, de division et, au final, de corruption. « Nul bien ne sera la possession privée d’aucun d’entre eux, sauf ce qui est de première nécessité » décrète le philosophe, qui préconise en outre « qu’ils vivent en communauté, comme ceux qui sont en expédition militaire » , et que parmi les habitants de la cité « ils soient les seuls à n’avoir pas le droit de prendre une part, ou de toucher l’or et l’argent, les seuls à ne pouvoir entrer sous un toit qui en abrite, en porter sur eux comme ornement, ou boire dans un récipient d’or ou d’argent » (8).

« Car, ajoute-t-il, dès qu’ils possèderont privément de la terre, une habitation et de l’argent, ils deviendront administrateurs de leurs biens, cultivateurs au lieu d’être les gardiens de la cité, et au lieu d’être les compagnons défenseurs des autres citoyens,  ils en deviendront les tyrans et les ennemis, remplis de haine et eux-mêmes haïs, ils passeront leur vie conspirant contre les autres et deviendront objets de conspiration, et ils redouteront bien davantage et plus souvent les ennemis de l’intérieur que ceux de l’extérieur, se précipitant vers la ruine eux-mêmes et l’ensemble de la cité » (9). En outre, leurs enfants seront enlevés dès la naissance afin de recevoir une éducation collective de type militaire.

Ce « communisme platonicien », un communisme viril et ascétique sans rapport avec les cauchemars messianiques à la Marx et Trotsky, n’est pas sans rapport avec le national-communautarisme spartiate. D’ailleurs, Montesquieu ne soulignera-t-il pas avec justesse que « la politique de Platon n’est pas plus idéale que celle de Sparte ».

Edouard Rix, Réfléchir & Agir, hiver 2009, n°31.

NOTES

(1) G. Dumézil, L’oubli de l’homme et l’honneur des dieux et autres essais. Vingt-cinq esquisses de mythologies, Gallimard (Coll. « Bulletin des sciences humaines »), 1985, p.94.

(2) Ibid, p.13.

(3) Platon, La République, Flammarion (Coll. « Le monde de la philosophie »), 2008 p. 262.

(4) Ibid, p. 199.

(5) Ibid, p. 200.

(6) Ibid, p. 201.

(7) Ibid ,p. 245.

(8) Ibid,p. 205.

(9) Ibid, pp. 205-206.

jeudi, 08 octobre 2009

Apollon, Pan, Dionysos: la religiosité de Friedrich Georg Jünger

apollon.jpgKarlheinz WEISSMANN:

Apollon, Pan, Dionysos:

la religiosité de Friedrich Georg Jünger

 

Nombreux furent ceux qui s’étonnèrent de la conversion d’Ernst Jünger au catholicisme, quelques temps avant sa mort. Rares furent ceux qui s’attendaient à cette démarche, surtout parce que Jünger avait intensément étudié la Bible dans les années 40 et parce que le “platonisme” ne cessait plus d’imprégner son oeuvre, surtout à la fin, tant et si bien qu’on a soupçonné, lors de son passage au catholicisme, une motivation “hérétique” cachée, de type “gnostique”. Sans doute les frères Jünger, Friedrich-Georg et Ernst, ont été rarement aussi éloignés l’un de l’autre qu’en ce point: pour Friedrich-Georg, le christianisme n’a jamais été une tentation car il se souvenait, qu’enfant déjà, il ne comprenait pas “pourquoi il y avait des prédicateurs, des prêches et des églises”.

 

Pourtant le paganisme de Friedrich-Georg Jünger ne contenait aucune véhémence à l’égard de l’Eglise et de ses doctrines; son paganisme était plutôt quelque chose d’étranger au christianisme, quelque chose qui se situait au-delà de l’Evangile; ce “quelque chose” témoignait d’un résidu d’âme archaïque et, jeune, notre auteur ressentait déjà la nostalgie du temps “du Grand Père, ..., qui s’en allait vers le noisettier pour converser avec le serpent”. Le serpent, qui conserve chez Ernst Jünger une certaine ambivalence, est, chez Friedrich-Georg, un symbole tout à fait positif: “cette créature magnifique qui brille et se repose au soleil”, “cet animal flamboyant du Grand Midi”, consacré pour cela à Apollon, le dieu auquel Friedrich Georg se sentait tout particulièrement lié. Le serpent du Midgard nordique, animal apocalyptique, ne l’attirait nullement. Son paganisme ne se référait que très rarement aux traditions germaniques; ce furent surtout les mythes grecs qui occupèrent sa pensée. A la suite de nombreux essais, Friedrich Georg finit par publier le volume “Griechische Götter” (= “Dieux grecs”) en 1943, qui sera suivit de quelques livres sur des thèmes apparentés. Son engouement pour les dieux et la mythologie grecs, il le parachèvera par un long essai intitulé “Mythen und Mythologie” (= “Mythes et mythologie”), paru en 1976, peu avant sa mort, dans la revue “Scheidewege”, dont il était l’un des co-fondateurs. Cette fascination pour la mythologie grecque, il la doit bien évidemment à sa lecture de l’oeuvre de Nietzsche. Friedrich Georg Jünger était fondamentalement païen au sens où l’entendait Nietzsche, c’est-à-dire qu’il concevait le paganisme comme “un grand oui à la naturalité”, comme “un sentiment d’innocence au sein de la nature”, comme la “naturalité” tout court. Ce n’était pas chez lui une adulation de “l’élan vital” ou de la “Vie” au sens darwinien du terme ou au sens de quelque autre théorie évolutionniste. Son but était de tenter de faire à nouveau rejaillir une vision archaïque de l’existence, surgie jadis, en des temps immémoriaux, et qui s’est prolongée et maintenue jusqu’à l’époque chrétienne, sous des oripeaux christianisés; Friedrich Georg Jünger voulait se rappeler et rappeler à ses contemporains un mode de vie, d’existence, antérieur à l’histoire, a-historique: “Sans le temps, tout est là, simultanément – Au milieu repose chaque cercle” (“Ohne Zeit ist alles zugleich – In der Mitte ruht jeder Kreis”), écrivait-il dans son poème “Die Perlenschnur” (“Le collier de perles”). Les forces originelles possédaient chacun  un rang: Apollon, lumineux, qui apportait l’ordre et fondait des villes; Pan, phallique, qui fécondait et habitait la “Wildnis” (= “la nature inviolée”); Dionysos, en ébriété, sauvage et mutin, qui incitait à la fureur et à la frénésie.

 

friedrich_georg.jpgLe monde créé par les Olympiens n’était nullement idyllique et portait sans cesse la menace en soi. Dans “Chant de Prométhée”, Friedrich Georg Jünger fait justement parler Prométhée, le laisse énoncer ses prophéties, lui, le Titan enchaîné aux parois du Caucase pour être puni de son audace sacrilège:

“Und die Erde, auf deren Nacken Olympos thronet,

Ruft die Giganten herbei, die einst ihr Schoss sich gebar.

Sie, die unüberwindliche Nährerin stolzer Geschlechter,

Rufet mit wilderem Ruf Götter zum Streite herbei.

Untergang seh ich zunächst, Verzweiflung, Jahrhunderte alten,

Unerbittlichen Krieg. Alles versinkt in Nacht”.

 

(“Et la Terre, qui, sur ses épaules, porte l’Olympe, qui y trône,

Appelle à elle les Géants qui jadis naquirent de son giron.

Elle, l’infatigable nourricière de tant de fières lignées,

Appelle d’un cri plus sauvage encore les dieux au combat.

D’abord je vois poindre le déclin, puis le désarroi, enfin, une guerre,

Sans pitié, qui durera des siècles et tout s’enfoncera dans la nuit noire”).

 

La figure de Prométhée n’a cessé de hanter Friedrich Georg Jünger. Le plus “intellectuel” des Titans avait volé le feu aux dieux et l’avait donné aux hommes. Dans son ouvrage “Die Perfection der Technik” (1939/1946), F. G. Jünger donne une interprétation fort intéressante du mythe de Prométhée, car il souligne le caractère éminemment solaire de ce feu donné aux hommes. Ensuite, il n’interprète pas la colère des dieux comme une réaction de jalousie envers les hommes, devenus eux aussi possesseurs de l’élément, mais comme une fureur de voir le feu divin, force élémentaire et primordiale, “mis en service”. Les dieux ne peuvent pas l’admettre. La nature titanique de la technique humaine est entièrement mise en exergue ici car elle n’a jamais trouvé la voie pour utiliser l’énergie solaire: dès lors, elle a toujours dû se rabattre sur des forces telluriques, comme celles qui se libèrent lors de la fission de l’atome. Disproportion, démesure et monstruosité sont les caractéristiques essentielles de tout ce qui relève du titanique et, partant, de la technique. La domination du titanique/technique ne pourra donc être éternelle, avance prudemment F. G. Jünger; en effet, son poème se termine par les vers  suivants:

“Dies war der Gesang des hohen Fürsten Prometheus.

Doch der Donner des Zeus schlug den Titanen hinab”.

 

(“Tel fut le chant du noble prince Prométhée.

Malgré cela, le tonnerre de Zeus le jetta bas”).

 

F. G. Jünger avait parfaitement conscience qu’une grande différence existait entre les réflexions que nous posons aujourd’hui sur le mythe et la pensée mythique en soi: le danger de confondre  réflexions dérivées du mythe et pensée mythique est grand. Les réflexions sur le mythe et sur la permanence de sa puissance ont été à la mode, surtout pendant l’entre-deux-guerres. Aussi le nationalisme de facture barrèsienne, auquel les deux frères Jünger avaient adhéré, était-il conçu comme une “foi”, une “religion”. Friedrich Georg Jünger avait expressémentdéfini la Nation comme “une communauté de foi”, une “communauté religieuse”, qui s’exprimait par ses mythes et ses héros. Cette position n’a été qu’un engouement passager car les frères Jünger se sont assez rapidement aperçu que le mythe antique n’avait pas grand chose à voir avec la “foi” ou la religiosité au sens de la tradition biblique: “La foi, en tant que force qui tient quelque chose pour vrai, qui vit et meurt dans la conviction de cette vérité,  implique que ce qui est tenu pour vrai n’apparaît pas, ne se montre pas somatiquement. Rien ne paraît plus étrange et plus invraisemblable pour l’humanité actuelle que l’apparition physique des dieux. Car l’humanité actuelle ne croit pas en eux. Mais énoncer ce constat ne suffit pas. Les dieux ne peuvent plus apparaître à l’homme moderne, même s’il croit encore en eux. Et pourquoi pas? Parce que l’apparition d’un dieu n’a rien à voir avec la foi ou avec l’absence de foi, car les mythes ne recèlent aucune réalité à laquelle il faudrait croire, aucune réalité que l’on pourrait toucher du doigt ou montrer”.

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Les dieux ne demandent pas la foi, ils demandent des sacrifices. Les Anciens ne doutaient pas de leur existence parce qu’ils percevaient leurs actions, leurs effets, leurs manifestations, parce qu’ils leur étaient dans une certaine mesure proches, même s’ils étaient fondamentalement séparés des hommes. Mais cette proximité du divin apparaît impossible à ceux qui ne croient qu’à une rencontre avec le “Tout Autre”, dans le sens où l’enseignent les religions révélées. C’est donc cette “expérience” du divin, cette expérience qui rencontre le scepticisme des religions révélées,  qui constitue la véritable racine de la religion de Friedrich Georg Jünger.

 

Karlheinz WEISSMANN.

(article paru dans “Junge Freiheit”, n°38/1998; trad.  franç.: Robert Steuckers, 2009).

lundi, 14 septembre 2009

Pouvoirs oligarchiques et démocratie de façade

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Pouvoirs oligarchiques et démocratie de façade

L’Intitut Néo-Socratique nous prie d’annoncer son cycle de conférences qui se déroulera au cours de l’année à venir sur le thème général :

Le Système oligarchique ;
comment il nous domine et comment s’en libérer !

 

La première conférence, prononcée par Yvan Blot, Président de l’Institut, se tiendra 

Le lundi 14 septembre 2009 à 19H 30
A l’Hôtel Néva (rez-de-chaussée)
14 rue Brey – 75017 PARIS (près de l’étoile)


avec pour titre :

Notre démocratie de façade cache une oligarchie ;
Origine historique de cette situation


En avant propos de cette conférence, Polémia en présente la thématique qui sera abordée.



Pouvoirs oligarchiques et démocratie de façade

L’histoire de l’humanité est en grande partie l’histoire de ses classes dirigeantes. Dans toutes les sociétés sauf les sociétés très primitives, des classes dirigeantes sont apparues (Spencer) et ont cherché à justifier leur domination, en général avec succès. Ce succès reposait principalement sur leurs prestations, protéger la société du désordre intérieur et des ennemis extérieurs, notamment.

Très tôt, les anciens philosophes grecs perçurent que les dirigeants pouvaient rechercher leur intérêt propre et trahir le bien commun. La classification classique des régimes politiques d’Aristote vient de là : la monarchie vise le bien commun à l’inverse de la tyrannie. L’aristocratie vise le bien commun à l’inverse de l’oligarchie. Dans le langage actuel, la démocratie (Aristote disait : politeia que l’on traduit par république) vise le bien commun, ce qui n’est pas le cas du gouvernement démagogique.

Elites dévouées au bien commun ou élites courtermistes

Plusieurs critères permettent de distinguer les élites dévouées au bien commun et celles qui ne le sont pas :

Les propriétaires, rois ou aristocrates, ont une vision à long terme de la gestion de leurs biens, ce qui est beaucoup moins le cas des gérants salariés nommés pour une période courte. A l’heure actuelle, ce sont les gérants salariés, les « managers » qui gouvernent non seulement l’Etat mais aussi la plupart des grandes entreprises et les médias. C’est le règne de l’intérêt à court terme.

Un deuxième critère peut être le caractère plus ou moins « héroïque » des gouvernants, c'est-à-dire leur capacité à se sacrifier eux-mêmes pour autrui. Cette capacité est plus grande, par vocation même, chez les religieux ou les militaires, ou encore chez les savants ou professeurs amoureux de la vérité ou les juges et policiers amoureux de la justice.

Autrefois, l’aristocratie occupait les postes supérieurs de l’Etat. Elle n’avait pas que des mérites mais elle avait celui d’être d’essence militaire : le soldat est prêt à mourir, à donner sa vie pour son roi ou son pays. L’éthique du sacrifice ne lui était pas étrangère. Les gouvernants actuels ont une éthique de carrière bien différente.

« Les démocraties représentatives » ne sont que des oligarchies

Au vingtième siècle, on peut dire que les aristocraties ont été remplacées par des oligarchies. Ce n’est pas la version de l’histoire officielle car les oligarchies ont prétendu se battre pour la démocratie. On fait croire aux foules occidentales qu’elles vivent en démocratie, laquelle aurait remplacé les monarchies d’autrefois et leurs aristocraties nobiliaires. En réalité, nous vivons en oligarchies sous le nom de démocraties dites « représentatives ».

Essayez donc d’être candidat à une élection sans être membre d’un parti politique puissant : votre chance de vous faire élire est nulle ! Essayez donc de proposer une loi sur un sujet qui vous est cher. Il n’y a aucune procédure pour cela sauf dans les rares pays qui pratiquent la démocratie directe : la Suisse  et l’Italie, au niveau national et local, l’Allemagne et l’ouest des Etats-Unis, au niveau local seulement.

Les vraies démocraties sont aujourd’hui celles qui combinent démocratie directe et démocratie représentative.

Seule la démocratie directe permet de contrôler les « gérants »

Pour les démocraties purement représentatives, le bilan n’est pas bon. Des études économiques très poussées, notamment du professeur suisse Kirchgässner, ont montré que les pays à démocratie directe ont des impôts 30% plus faibles, des dépenses publiques 30% plus réduites et une dette publique 50% plus faibles que les démocraties représentatives. Le PNB est plus élevé en moyenne.

De plus, du point de vue politique, les démocraties directes satisfont leurs citoyens (80% des Suisses sont satisfaits de leurs institutions. Dans les démocraties purement représentatives comme la France, les citoyens n’ont absolument pas le sentiment d’avoir une influence sur la politique de leur pays. Ils ne peuvent pas initier de référendums. Ils peuvent élire les députés présentés et sélectionnés par les grands partis politiques et c’est tout. Les programmes des partis se ressemblent de plus en plus. Le citoyen n’a plus guère de choix. D’après une enquête lourde menée par les politologues Bréchon et Tchernia, 40%  des Français font encore confiance au parlement, autant pour les syndicats et 18%  seulement font confiance aux partis politiques. Les Français n’ont pas l’impression que l’on gouverne en fonction des préoccupations et des intérêts du peuple.

Pour redonner du sens à la démocratie, il faut prendre conscience du caractère oligarchique du pouvoir actuel, qui est le pouvoir de gérants à court terme (rien à voir avec la gestion de vrais propriétaires). Il faut contrôler ces gérants : une seule voie pour cela : la démocratie directe. 
  
Yvan BLOT
24/08/2009

Correspondance Polémia
11/08/2009

jeudi, 09 juillet 2009

Aphrodite und das Uridol

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SYNERGON/EUROPA - Brüssel - Juni 2000

Gerhoch REISEGGER:
Aphrodite und das Uridol


Mit Aphrodite der Göttin der Liebe wird unsere Behauptung einer urältesten europäischen Herkunft der griechischen Gläubigkeit und Kultur auf die schwerste Probe gestellt. Sogar die griechische Historiographie besteht auf einen orientalischen Ursprung dieser als ³ungriechisch² empfundenen Göttin, deren Namen zudem ³zweifellos ungriechisch² heißt. Herodot, der allerdings auch Herakles aus Ägypten herleiten möchte, nennt als Mutterheiligtum Aphrodites das der Himmelskönigin semitischer Völker und auch des Alten Testaments in Askalon (1, 105). Walter F. Otto, der wie allgemein dieser Genealogie folgt, meint aber doch, daß die asiatische Aphrodite einer alteinheimischen ³begegnet² wäre, die in Athen als ³älteste der Moiren² in den Gärten verehrt wurde.

Er folgert daher:

³Doch wir können die Frage nach dem historischen Ursprüngen ruhig offen lassen, ohne zu befürchten, daß wir etwas Wesentliches für das Verständnis der griechischen Göttin verlieren. Denn was auch der Orient, was Griechenland in vorgeschichtlicher Zeit zu ihrem Bild beige-tragen haben mögen, sein Grundcharakter ist durchaus griechisch.²

Hans Walter meint aber in seinem Werk, das die griechischen Götter im Bildwerk aus dem Gesamtwinkel griechischer Bewußtseinsstufen her betrachtet, geradezu:

³Aphrodite kam nicht von Kypros oder dem Orient, um in Griechenland heimisch zu werden. Sie war eine alteingesessene griechische Göttin schon im zweiten Jahrtausend ... Ihr Ursprung liegt in der unendlichen Fruchtbarkeit des Lebens, nicht in einer fremden Religion. Die Frage nach der Herkunft der Aphrodite ist von geringerer Bedeutung, wenn nach der griechischen Aphrodite gefragt wird.²

Klassischer Archäologe wie Religionshistoriker sind sich demnach merkwürdig einig, daß einmal ³die Himmelskönigin, wie sie in den  babylonischen Liedern verherrlicht wird, ... nicht bloß den Homerischen, sondern auch den Orphischen Hymnen durchaus fremd² ist, und ein andermal: ³wie der Mensch an die Göttin gebunden ist, so ist die Göttin an den Menschen - im antropologischen Sinn: an dessen Werdegang im Seinsbereich. Und dieser Werdegang des Menschen bestimmt den Wandel der Gestalt und der Macht der Aphrodite.²

Nichts könnte das Dilemma einer eingeschränkten historischen Sicht, in der die Vorgeschichte nur als Schattenwelt aufdämmert, besser beleuchten. Teils ist man gezwungen Aphrodite als fremde Göttin mit fremden Namen hinzunehmen, teils begegnet dieses völlig Fremde einer ³alt-eingesessenen² griechischen Göttin, die die Frage nach ihrer Herkunft ³von geringerer Bedeutung² macht. Und dennoch entscheidet in diesem Dilemma ein richtiges Gefühl, nämlich die engste Blutsverwandtschaft zwischen Göttin der Liebe und deren Verehrern. In diesem Bereich kann in der Tat das Fremde keine Bedeutung erlangen.

Scheut man sich nicht, die Schranke des zweiten Jahrtausends rückwärts zu passieren, so wird die Herkunft dieser griechischen Göttin der Liebe nicht etwa nebelhafter und daher unbedeu-tender, sondern alle ihre mythischen Züge, ihre Vielgestaltigkeit im griechischen Glauben ziehen sie zur Quelle zusammen, und man ist nicht mehr genötigt wie Hans Walter nur die allgemeine Voraussetzung zu machen: ³Denn eine allmächtige Göttin der weiblichen Frucht-barkeit und Zeugung kann unter den griechischen Göttern der Vorzeit nicht gefehlt haben - es gab das Leben und den Trieb.² Wie dieser feinsinnige Deuter des Gestaltwandels griechischer Götterbilder nachweist, daß vor allem dasjenige der Aphrodite fähig war, bis ans Ende der griechischen Bildschöpfung stets noch neuer Bewußtseinsstufen der Liebe und Leidenschaft - bis hin zum bloßen ³Reiz des Anblicks² - Gefäß zu bleiben, so reicht auch ihre Bildgestalt zu-rück bis in die ältesten Phasen der paläolithischen Bildenthüllung.

Diese Jahrzehntausende lange Dauer eines Götterbildes der Liebe, die von vornherein nur mit der weiblichen Gestalt, mit der enthüllten Weiblichkeit Bild werden konnte, wird nun von den Stufen des Bewußtseins gegliedert; der mythische Grund wandelt sich nicht, so wenig wie die Macht der Liebe sich wandelt. Nicht nur bindet Aphrodite die ganze Natur und alle Götter, außer Artemis und Athena, sondern mit diesen beiden Polen des Seins den Menschen. Sie ist Göttin des Himmels, des Meeres und der Erde zugleich; ihr Wunder offenbart sich überall und zum Enthüllen ihres Wesens und ihrer Macht bedarf es keines Ortes, keiner Lehre und keines Kultes. Ja, sie kann ihr Wesen in seiner allmächtigen Gegenwart bei jeder Frau von Fleisch und Blut reproduzieren wie etwa in Helena, die im nachklassischen Bildwerk auch anonym nicht anders als Aphrodite selbst erscheint.

Es kann daher nicht befremden, daß bei der allgemeinen Tiergotthaftigkeit der Höhlenkunst die Liebesgöttin nur in menschlicher Gestalt erscheinen kann. Man kann sie nicht wie andere griechische Götter in ihrer Wirksamkeit mit einem besonderen Tier vergleichen, denn alle Tiere sind ihrer Macht in gleicher Weise Darstellung unterworfen. Im griechischen Bildwerk sind ihrer Macht in gleicher Weise etwa der Hase in ihrem Schoß, wie die Gans zu ihren Füßen unterworfen; der Schwan wie gar die Muschel sind ihr nur Gefährt und Gefäß. Abweichend von den anderen Göttern wird sie daher in unserer Darstellung nur mit dem eigenen Urbild, genauer Uridol, assoziiert.

Denn das ist das Kennzeichen der Liebe selbst, daß sie nicht denkbar ist ohne das Bild, das in und aus ihr selbst erzeugt wird. In diesem Sinn durchbricht das weibliche Idol die Hierarchie des Jägertums, die sich im Tierbild manifestieren kann und jene Erklärung, daß hinter dem Tierbild letztlich noch das des Menschen steht, bekommt ihre tiefste Begründung. Zuerst zu diesem Idol, über und vor allem andern, vorhanden, und mehr noch: es ist unbedingt nicht mit einem Kult oder Kultort verbunden. Man fand es oft verstreut, weitab von den alten Heilig-tümern.

Kehren wir zu unserm Ausgangsdenkmal von Angles-sur-Anglin zurück, so sehen wir unter den mehrfach vorgestellten nackten Frauen, daß sich eine mit der Tierhierarchie verbindet und somit den Kultort als universalen Lebensraum vervollständigt. Die anderen sind aber nicht bezogen und weisen daher auf die Eigenständigkeit des Frauenbildes im Bereich der Höhle hin, ja übersteigen sowohl nach der Tiefe als nach der Höhe diesen Höhlenraum; weder ihre Füße noch ihre Häupter werden von diesem umschlossen. Da sie in den geheiligten Rahmen kosmisch-tellurischer Zeugungsmacht und -lust hineinversenkt sind, bedarf es keiner hindeutende Attribute oder Charakteristiken. (Abb. 23)

Attribute können hinzutreten wie in den bekannten Frauenreliefs von Laussel, von denen wir die eine mit der Hornschale in der erhobenen Rechten als Beispiel hervorheben um damit zu kennzeichnen, was allen andern hier gemeinsam ist: das so stark an griechische Tempelbilder erinnernde Hinhalten eines deutenden Signums. (Abb. 7) Mann hat nur an die Assoziation der Frau von Angles-sur-Anglin mit Bison und Stier zu denken um hier die gleiche Beziehung zum Attribut des Horns zu erkennen, gleich ob dieses sich zur Trinkschale der Fülle des Glücks sublimiert oder nicht. Die üppige Lebenslust, die sich dort im feisten Bison äußert, ging in Laussel leibhaftig auf die Frauengestalt selbst über. Darum unterscheidet sie sich von den schlankeren, normativen Frauen von Angles-sur-Anglin.

das gleiche Verfahren tritt dann bei den freiplastischen Frauenidolen auf: man ist jetzt genötigt, durch die Charakterisierung und Ausgestaltung allein Assoziatives einzubeziehen. Drum schwanken diese Bildungen auch so erheblich von zierlichen zarten Figuren zu üppigen, wie die allbekannte Venus von Willendorf. Verismus hat wie allgemein in der Höhlenkunst allermindest mit Idolen zu tun. Sie sind bildliche Versinnungen, ja Versonnenheit in einmaliger Ungebundenheit der Imagination, einer Imagination, in der das Wesen der Aphrodite genannten, unbezwingbaren Macht in urtümlicher Gelöstheit schaltet.

Die Figuren und Gebilde, deren die aphrodisische Versinnung  fähig ist, schweben in einem imaginären Raum und berühren in diesem ungebundenen Flug unfaßbar Ätherisches zugleich mit unsagbar Sinnlichem, bald vogelhaft zum Aufstieg gestreckt, bald fruchthaft zur Schwere geschwollen; am gleichen Gebilde lösen sich weiblich Wonnevolles und männlich Phallisches von einander ab und fließen willkürlich zusammen, und nie - auch nicht in der surrealistischen Kunst der Gegenwart - war die Ambivalenz ungehemmter.

Die Grundsituation der Erscheinung des Idols bleibt die gleiche wie im Höhlenbild der Frau von Angles-sur-Anglin, nämlich die Epiphanie, das unvermittelte, wie aus dem Nirgends her Auftauchende. Dazu bedarf es der Gehorgane nicht und auch nicht des Antlitzes, denn das Wesen des Liebesgottes äußert sich nicht kausal oder geistig, sondern in der Betörung, der Bezauberung des Körperlichen. In all diesen Zügen ist die griechische Liebesgöttin dem Urbild gleich geblieben. Sogar der Mythos muß sie als ³Fremde² in die Göttersippe wie im Leben empfinden. Sie ist am Lande nicht gebunden.

Wenn sie als Tochter des Zeus in die olympische Ordnung aufgenommen zu sein scheint, so zeigt schon die Titanenschaft ihrer Mutter Dione dieses Außensein ihres Wesens an. Doch ist es vor allem ihre Abstammung von Uranos, die ihr unter den Olympiern nicht nur die verschiedene, sondern sogar die ³ältere² Herkunft bezeugt. Möge sie nun in Bildern aus der Erde oder dem Meer auftauchen und von allen Göttern freudig begrüßt werden, auch diesen ist sie eine plötzlich Erscheinende, in keiner Weise aus ihrem Kreise Erzeugte. Auch bleibt ihr Wesen allen unfaßlich weil völlig unbotmäßig. In ihr bleiben alle jene Züge betörender, ungeistig-ordnungswidriger Körperlichkeit der Uridole geistig erhalten als das vitalste und oft erbaulichste Lebenselement in der griechischen Hierarchie.

Damit erledigt sich von selbst das sogenannte Problem der Fremdheit der Aphrodite im griechischen Glauben: die Liebesgöttin ist eine Un-Heimliche in jedem Glauben; nicht weniger im vorderasiatischen Raum als schon im paläolithischen Höhlenkult. Man braucht nur einmal an die unausgesetzte Verunglimpfung durch den Helden des Gilgamesch-Epos zu denken: Sie ist aber nicht weniger von griechischen Dichtern und Denkern geschmäht und verdammt worden; ganz besonders dann, wenn ihre Macht durch die Vernunft in Frage gestellt wird und sie sich dann als unfaßbar und zerstörend erweisen muß. Daß sie, etwa im Parisurteil oder im Untergang des unschuldigen Hippolytos, jeweils ganz entgegengesetzten olympischen Göttinnen der Sittsamkeit wie Hera, Athene und Artemis zuwiderläuft, hat mit einer Freiheit innerhalb dieser Götterordnung nur insofern zu tun, wie die Liebesmacht sich jeder Lebensordnung zu widersetzen vermag. Auch Apollons Forderungen fielen Unschuldige zum Opfer.

Freilich ist nicht zu verkennen, daß Aphrodite schon durch ihre Herkunft aus der Hierarchie des Uranos, besonders aber dadurch, daß sie von mehreren Anhängern begleitet erscheint - von Eros, Himeros, Pothos und Peitho - den Eindruck macht, als habe sie einst eine eigene, weibliche Gläubigkeit vertreten.. Und hier erhebt sich die besonders seit J. J. Bachofens Werk über das Naturrecht nie verstummende Vorstellung von einer Ära der rein weiblichen Herrschaft der Göttermacht. Auch diese Vorstellung wurzelt wie die sogenannte Fremdheit der Aphrodite nicht in einer kulturgeschichtlichen Ära, sondern, wie die Gegenwart nach zwei Weltkriegen zeigt, im ambivalente Fatum der beiden Geschlechter.

Sie kann hiermit und noch einem Hinweis in unserer Untersuchung übergangen werden: Wenn Bachofen vom ³Hetärismus² als ältester Form des Geschlechterverhältnisses ausgehet, das in der ³demetrischen² Ordnung zu einer ehelichen Gynaikokratie erhoben und endlich durch Einwirkung der ³sonnenhaften², männlichen Potenz zur höchsten, geistigen Hierarchie geführt wurde, so kann hierin nicht ein evolutionärer Fortschritt der menschlichen Kultur statuiert werden, denn alle diese vermeintlichen Stufen der Entwicklung liegen bereits völlig ausgebildet im ältesten Jägertum vor Augen. Auch ist es falsch, etwa im Kultakt des Frauenfestes vom Hetärismus zu sprechen als einer Herrschaftsform der Frauen, weil hier sowohl das Vorbild der Tiersbrunst, als die kosmische Rolle des Mondes einbegriffen ist.

Es soll weiterhin von vornherein festgestellt werden, daß in den Höhlenkulten ein maternales Übergewicht herrscht entgegen der männlichen Himmelsordnung in der arktischen Urkultur. Und der Idolkult schließt sich gewiß der ersteren Lösung näher an, obwohl, wie gesagt, das Auffinden der Idole im Freien auch die Ungebundenheit sogar vielleicht von einem Kulte überhaupt nahelegt. Die Liebe selbst sucht nur zu gerne die Freiheit und Vereinzelung der Natur als ihr heimisches Reich auf. Hier ist auch Aphrodites Domäne. In dieser tritt der Pantheismus Aphrodites zumal als Grundlage der ganzen Urreligion in sein Recht. Sie vereint die drei Bereiche der Urkonzeption der Welt; die die himmlische Sphäre mit der irdischen und der dunklen der Unterwelt.

Beginnt man bei ihrer himmlischen Herrschaftssphäre, so besagt schon ihr Name, ihre Tochterschaft aus dem Samen des Uranos im Meer, diese polare Verwandtschaft zu Zeus in seiner Dreigestalt mit Poseidon und Hades aus: es ist keine Inkonsequenz, daß Aphrodite Urania in der Olympischen Mythik als Tochter des Zeus gilt. Wir legten schon dar, daß, wenngleich nach dem Mythos erst als Enkel dieses Uranos auf Kreta geboren, Zeus dennoch Herr der Himmelslenkung war. Daß anscheinend Aphrodite ihm vorausging, kam nur aus dem Bewußtsein herrühren, daß die Liebe vor allem existiert; daß auch ihr Bild als ältestes Idol entstand, mag kulturhistorisch diese selbstverständliche Anschauung nur bestätigen.

Gerhoch REISEGGER.

 (1) Hans Walter: Griechische Götter, München 1971, pg. 169

mardi, 14 avril 2009

Danses dionysiaques

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Danses dionysiaques

 

Une savante étude sur Les danses dionysiaques en Grèce Antique vient de paraître. Il s'agit de la troisième partie d'une thèse de doctorat soutenue par Marie-Hélène Delavaud- Roux en 1991 et dont les deux parties précédentes ont été publiées sous les titres de Les danses armées en Grèce Antique et de Les danses pacifiques en Grèce Antique. L'auteur écrit: «Dans ce qui suit, je donnerai aux qualificatifs des danses dionysiaques ou bachiques un sens très large. Il s'agit en fait d'un type de danse qui peut concerner d'autres divinités que Dionysos —Déméter, Cybèle et Adonis. Nous prenons donc les mots “dionysiaque” et “bachique” dans le sens d'“orgiaque”, par opposition aux manifestations orchestiques armées et pacifiques. Dans cette étude, nous engloberons aussi bien les danses liées à l'extase que celles liées à l'ivresse. Les premières semblent féminines, tandis que les secondes paraissent plutôt masculines. Cependant, nous verrons que les hommes peuvent dans certains cas effectuer des danses mystiques, rappelant les danses des derviches tourneurs». Le livre est abondamment illustré de dessins figurant sur les céramiques grecques. Il permettra à certains une approche intéressante des musiques traditionnelles de ce pays. La Grèce est un des rares pays européens où les traditions musicales (entre autres) sont encore réellement  vivantes. Pour les découvrir, il faut éviter les soirées “pour touristes”, se munir de l'excellent L'été grec  de J. Lacarrière, et emprunter des chemins qui, parfois, ne mènent nulle part (JdB).

 

Marie-Hélène DELAVAUD-ROUX, Les danses dionysiaques en Grèce Antique, Publications de l'Université de Provence, 29 avenue Robert Schuman, F-13.621 Aix-en-Provence Cedex 1,1995, 256 p.,170 FF.

vendredi, 20 mars 2009

Ernst Jünger et le retour aux Grecs

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Ernst Jünger et le retour aux Grecs

 

 

(conférence d'Isabelle Fournier lors de l'Université d'été de la FACE, juillet 1995)

 

L'œuvre jüngerienne est, selon l'auteur lui-même, divisée en deux parties, un “ancien testament” (1920-1932), dont le fleuron est Le Travailleur (1932) et un “nouveau testament”, commencé par Sur la douleur. Pour Jünger, comme pour tous les hommes de culture en Europe, le recours aux Grecs est une démarche essentielle, malgré l'irrevéresibilité de l'histoire. Aujourd'hui, époque nihiliste, la clef de voûte de la civilisation hellénique, c'est-à-dire la Cité, s'effondre. L'homme libre doit la quitter, retourner à la forêt, au resourcement.

 

Dans l'œuvre jüngerienne, le symbolisme de la Cité est essentiel. Du temps des Grecs, la Cité s'opposait au chaos des périphéries incultes et sauvages. Mais cette Cité, symbole de l'empire que l'homme est parfois capable d'exercer sur lui-même, est périssable, comme nous le constantons, constat qui autorise à proclamer son imperfection. Jünger s'intéresse à la signification de cette mort des cités. Dans le monde grec, la Cité, justement, permettait d'élaborer, à l'abri du chaos, une pensée rationnelle, se substituant progressivement au mythe, fondateur de la culture initiale. L'esprit grec est celui qui a inscrit la pensée humaine dans la mémoire et la durée. C'est Hérodote qui fait passer l'hellénité du mythe à l'histoire. C'est aussi dans cette intersection que se situe Thucydide. Mais cette construction va s'éroder, s'effondrer. Nous sommes alors entrés dans l'âge des cités imparfaites.

 

Les cités imparfaites découlent de la dévaluation des valeurs supérieures: elles annoncent le nihilisme. La décadence est le concours de l'érosion de l'autorité spirituelle, de la dissolution des hiérarchies et du déclin de la langue. Le temps des virtualités religieuses est épuisé, l'unité mentale du peuple n'existe plus, les fidélités communautaires sont fissurées, on rompt avec le mos majorum. La Cité des Falaises de marbre est une de ces cités imparfaites, où il n'y a plus unité de culte, où les rites funéraires sont en déchéance, banalisés par la technique, où le sacré se retire, où la raison n'est plus qu'un outil de puissance. Mais Jünger sait surtout que l'on n'exhume pas les dieux morts. Dans Heliopolis, il se penche sur cette question du vide laissé par ces dieux et place cette autre cité imparfaite qu'imagine son génie poétique, à l'enseigne des néo-spiritualismes, palliatifs éphémères et maladroits à cette déchéance. Toute chute est précédée d'un affaiblissement intérieur, nous dit Jünger. Comment supporter ce déclin, qui est en même temps terreur? Par la fuite. Les héros jüngeriens présentent dès lors des itinéraires individuels tout de solitude, de nostalgie du monde originel, d'inquiétude existentielle. Ils sont volontairement des étrangers à l'histoire.

 

Œuvre et des cités primordiales et des cités imparfaites, l'œuvre de Jünger est aussi celle qui tente de donner un sens à cette fuite. L'homme peut-il guérir d'un monde foncièrement vicié? Oui, à condition de passer par l'athanor de la souffrance (de la douleur). Oui, à condition de recourir aux archétypes féminins, de retourner à la Grande Mère, retour qui est simultanément “réhabilitation du temps”.

 

(notes prises par Etienne Louwerijk et Catherine Niclaisse).

mercredi, 28 janvier 2009

Hypathie, vierge martyre des païens

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - COMBAT PAÏEN - DÉCEMBRE 1990

B. Favrit-Verrieux:

Hypathie, vierge martyre des Païens

"Dors, ô blanche victime en notre âme profonde,

Dans ton linceul de vierge et ceinte de lotos;

Dors! l'impure laideur est la reine du monde

Et nous avons perdu le chemin de Paros (…)

Demain, dans mille années,

Dans vingt siècles, —qu'importe au cours des destinées—

L'homme étouffé par vous se dressera (…)

Votre œuvre ira dormir dans l'ombre irrévocable".

Leconte de Lisle (Hypathie et Cyrille)

Alexandrie, 415. Cinq ans après le sac de Rome, alors que l'Empire s'écroule, l'Egypte vit à l'heure des derniers feux du paganisme antique. L'Occident est acquis à la cause du "Galiléen", l'Orient résiste encore, mais il n'est qu'en sursis. La ville égyptienne abrite une population multiconfessionnelle; la cohabitation s'avère de plus en plus difficile. Face aux Juifs et aux païens "Hellènes": les partisans de Jésus, manœuvrés par l'évêque Cyrille, et qui comptent bien se rendre maîtres de la place.

Dans cette atmosphère tendue se dresse Hypatie, la vierge des païens et, si l'on en croit les relations de Socrate (1) et Damaskios, l'ultime rempart du paganisme. Son père, prêtre des dieux et scientifique de renom, lui a enseigné la mathématique, l'astrologie et la philosophie. Elle a grandi dans le culte des dieux; elle sait que tout flanche et agonise autour d'elle; pourtant, elle se refuse à suivre la théorie des conversions. Un combat sans espoir, perdu d'avance… En cela réside toute sa signification.

Hypathie enseigne la philosophie, elle a le verbe haut mais la grâce l'habite; tous les témoignages convergent lorsqu'il s'agit d'évoquer sa grande beauté. On a coutume de la représenter au milieu d'un cénacle, le cercle de ses fidèles qui, avec elle, refusent de voir les dieux s'exiler pour céder la place aux religions de l'intolérance.

Les Juifs et les chrétiens s'affrontent à coups d'émeutes et de pogroms sous les regards inquiets d'Hypatie et des siens; à quand leur tour?… Il y aussi la lutte d'influence que se livrent Oreste, préfet de la ville, et l'évêque Cyrille. Pour une cause mal définie, le préfet d'Alexandrie aurait fait torturer à mort un chrétien, un provocateur dont les Juifs ont exigé la tête. L'affaire dégénère bientôt et c'est le massacre entre les deux communautés. Cyrille, qui a l'avantage de la supériorité numérique, fait détruire les synagogues et expulser les Juifs. Puis, emporté par son élan, l'évêque harangue ses troupes qui jettent l'anathème sur le représentant de Rome. Oreste cherche alors à se concilier les faveurs d'Hypatie dont l'influence est toujours notoire pour tenter de réduire Cyrille et ses moines fauteurs de troubles. On rapporte aussi que frappé par la beauté de la jeune femme, le préfet d'Alexandrie, bien que baptisé, aurait longuement hésité à s'engager sur le voie du paganisme. Il n'en fit rien.

Lorsque la vierge païenne est prise à partie en pleine ville par la foule chrétienne fanatisée qui l'arrache de sa voiture et la traîne au Caesarium, il ne réagira pas. Sur les marches du temple impérial, Hypatie est "déshabillée, tuée à coups de tessons, mise en pièces… Ses restes sont ensuite promenés dans les rues et brûlés…" (3). Désormais, Cyrille et Oreste peuvent envisager la réconciliation…

Dans son avant-propos à un ouvrage de Gabriel Trarieux (4), George Clemenceau eut cette phrase: "Hypatie contre Jésus. La Grèce toujours contre sa mère l'Asie, la beauté contre la bonté, fût-il jamais plus passionnante tragédie?" Passionnantes ou pas, il est des tragédies dont les païens que nous sommes ne peuvent s'accommoder et veulent éviter. Contre l'éradication de la beauté et le règne du lit de Procustre, nous devons montrer notre détermination face à l'intolérance qui règne chez nous et le retour des tabous et des amalgames minables. Nos spécificités, notre religiosité européennes nous ont toujours enseigné de ne pas nous agenouiller, nous encaloter, nous voiler, nous asservir, de privilégier l'amour des libertés pour que s'élève l'être face à ses sensibilités identitaires. Hypatie, la chaste et belle païenne, n'a pas voulu se taire et se prosterner. Elle a montré la voie. Souvenons-nous du culte d'Athénée Poilias qu'elle tenta d'honorer jusqu'au bout et de sa croisade contre le Crucifié.

B. Favrit-Verrieux.

Notes:

(1) Histoire de l'Eglise.

(2) Vie d'Isidore.

(3) Chronique des derniers païens - Pierre Chuvin (Les belles Lettres: Fayard, Paris, 1990).

(4) Hypatie - Cahiers de la quinzaine (Paris, avril 1904).

samedi, 17 janvier 2009

L'héritage de Sparte

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - CRITICON (Munich) - ORIENTATIONS (Bruxelles) - Février 1990

L'héritage de Sparte:

Hommage à la Prusse de la Grèce antique

par Gerd-Klaus KALTENBRUNNER,

Si la Prusse-Brandebourg fut le "pôle nord" et l'Autriche le "pôle sud" de l'histoire allemande mo-derne, la politique et la civilisation hellé-niques furent marquées pendant des siècles par l'opposition entre Athènes et Sparte. L'Autriche et la Prusse ne furent pas seulement des constructions étatiques: elles ont également in-carné une manière d'être, un état d'esprit, un style, une éthique. Il en est de même pour Athènes et Sparte. Ce dualisme resta d'ailleurs bien vivace longtemps après que les deux cités-Etats grecques eurent perdu leur puissance et même leur indépendance. A l'instar de l'ancien Empire allemand, qui comprenait une multitude d'Etats dont certains étaient de taille mi-cro-sco-pique, la Grèce antique ne formait pas une unité politique; c'était une mosaïque de villes et de confédé-rations, toutes jalouses de leur indépen-dance. Cer-taines de ces poleis  jouèrent, en leur temps, un rôle éminent, politiquement ou cultu-rellement. Citons par exemple les villes grecques d'Asie mineure, Ephèse, Milet et Smyrne, les colonies grecques de la Mer Noire, de Sicile ou d'Italie du Sud. Sur le continent hellénique, ce furent Corinthe et Thèbes, Argos et Némée, Eleusis et Delphes, sans oublier les nombreuses villes-Etats de la Mer Egée: la Crète, Chypre, Rhodes, Samos, Lesbos, Delos, Chios, etc...

Chacun de ces noms renvoie à une facette de l'"hel-lénité", incarne un aspect unique, irré-ductible, de la culture grecque. Pourtant, seules Athènes et Sparte ont acquis une dimension historique mondiale. C'est qu'elles furent, avant tout, des "idées" au sens plato-nicien, c'est-à-dire susceptibles, selon les circons-tances, de se réactualiser, de se réincarner sans cesse. Elles ne furent pas des concepts abstraits mais des modèles vivants d'existence historique pouvant à tout moment orienter l'histoire réelle. La Guerre du Pélo-ponnèse, cette "guerre mondiale grec-que" selon la formule magistrale de Thucydide, constitue l'épiphanie de cette opposition, où se résorbe l'insurmontable dualité Sparte-Athènes. Pour Platon mais aussi pour Rousseau et, plus récemment, pour Maurice Barrès, Sparte était l'archétype de l'"Etat vrai". Or, cet arché-type sert depuis longtemps de repoussoir à une politologie qui s'est dégradée en "science de la démocra-tie" au service de l'"esprit du temps".

Sparte ou Spartacus?

On peut, bien entendu, être spartakiste, puisque ce terme ne renvoie pas à un groupe d'extrême-droite mais à un mouvement communiste (le communisme passant déjà pour une forme de démocratie). Etre spartakiste, cela n'a plus rien de dégradant. Le sparta-kisme, c'est de gauche, donc c'est bien. Le mot n'évoque-t-il pas l'es-clave Spartacus, originaire, non de Sparte, mais de Thrace, qui avait organisé la révolte contre ses maîtres romains? Sparte, en revanche, voilà le diable. La "spartitude", c'est synonyme de ru-desse, de dureté, de vexations inutiles... Mais que valent les beaux discours sur la "démo-cratie" quand survient l'Ernstfall:  le cas d'ur-gen-ce, la situation périlleuse, exception-nelle? L'ins-tant où la question n'est plus de savoir si l'on va se permettre un peu plus ou un peu moins de confort "démocratique"? Où le défi existen-tiel se résume en deux mots: se battre ou dispa-raî-tre...

Combien pèsent, sur le plateau de la balance, les so-phismes libéraux-démocratiques le jour où les armées ennemies franchissent la frontière, saluées par des cin-quièmes colonnes qui déroulent joyeusement le drapeau de l'étranger et s'ali-gnent pour la collabora-tion? A ce moment-là, la seule alternative n'est-elle pas: Aut Spartiates aut Spartacus  (Etre Spartiate ou Spartakiste)?

Aujourd'hui, au nom de Sparte, qui se souvient du mythe d'Hélène, la plus belle femme du mon-de? Qui se souvient que Castor et Pollux, le cou-ple inséparable des deux frères héros qui recevra plus tard une patrie céleste en devenant la constellation zodiacale des Gé-meaux, étaient d'o-ri-gine spartiate et furent honorés à Sparte? On a oublié que Cythère, île fortunée dédiée à Aphro-dite, faisait partie du territoire de Sparte. Révolu est le temps où les écoliers découvraient, le coeur bat-tant, les légendes de l'Antiquité classi-que et s'enthousiasmaient de ce que Sparte, pour-tant située au centre de la plaine de l'Eurotas, ait renoncé, jusqu'à la période hellénistique, à se construire des remparts. Si les Spartiates n'ont pas voulu ériger des fortifica-tions artificielles et des forteresses, c'est parce qu'à Sparte, les hommes, c'était l'Etat. Ces hoplites, qui misaient sur la force de leurs poings et de leurs armes, savaient que chacun était une pierre d'un rempart vi-vant: l'esprit de défense de la Polis. Qui se rappelle en-fin ce que rapportaient Aris-tote, Plutarque et d'autres écrivains antiques: nulle part ailleurs, dans aucun autre Etat grec, la femme n'avait autant de droits civils et publics que dans cette cité dorienne qui exaltait comme nulle autre la fraternité virile?

La Gérousie

On oublie souvent, semble-t-il, que Sparte fut le pre-mier Etat au monde à posséder une sorte de tribunal constitutionnel. Il s'agit des cinq épho-res ou "gardiens des lois" qui pouvaient même traduire les rois (il y en avait toujours deux à la tête de la polis) devant leur ju-ridiction. Il faut rappeler que Sparte, justement parce que sa constitution était "spartiate", a toujours su étouf-fer dans l'oeuf l'émergence de tyrans populaires, ce qui ne fut pas le cas des autres cités-Etats grecques. Soucieux de donner une expression politique à la sa-gacité, à l'expérience et à la sa-gesse des Anciens, les Spartiates créèrent la Gé-rousie: aucune affaire impor-tante de l'Etat ne pouvait être tranchée sans l'assentiment préala-ble de ce Conseil des Anciens qui, avec les deux rois représentant le couple de Gémeaux mythologi-ques, Castor et Pollux, comprenait trente mem-bres au total. Pour siéger à la Gérousie, il fallait avoir au moins soixante ans. L'appartenance à ce corps, incarnation politique du principe de sénio-rité, était définitive: seule la mort pouvait y met-tre fin. Il ne fait guère de doute que la stabilité politique de Sparte, pendant des siècles, était due en partie à cette institu-tion, capable de dé-jouer à temps tous les projets préci-pités, les ini-tiatives inconsidérées ou les idées non mû-ries.

Mais ni la belle Hélène ni les dioscures siégeant au firmament étoilé ni la sagesse du Conseil des Anciens n'ont aujourd'hui droit de cité lorsqu'il est question de Sparte. Même le poète Tyrtée, qui vivait au VIIième siècle avant notre ère et dont les éloges de Sparte sont nombreux, paraît oublié. Et pourtant, Tyrtée était Athénien de naissance. On dit qu'il boitait et avait été maître d'école. Ce n'est que plus tard qu'il devint pa-né-gyriste de Lacédémone et citoyen spartiate. Plus de deux mille ans après, le Souabe Hegel allait bien à Berlin où il devint... philosophe de l'Etat prussien! C'est dans la guerre, disait Hegel, que se manifeste la cohésion de chacun avec l'ensemble. Et il ajoutait que la guerre était l'esprit et la forme où se focalisait l'essentiel de la sub-stance éthique d'un peuple ou d'une nation.

Quant à Tyrtée, j'hésite à le citer car, s'il vivait de nos jours, ses éloges de l'héroïsme spartiate lui vaudraient certainement d'être marqué du signe infamant d'"extrémiste de droite". Une de ses élégies, consa-crée aux héros de la deuxième guerre médique, paraî-trait presque obscène à des oreilles pacifistes, à l'instar du fameux vers d'Ho-race selon lequel "il est doux et honorable de mourir pour la patrie" (Carmina  III, 2, 13), ou encore de Hölderlin dont on s'obstine —sans suc-cès— à faire un Jacobin en puissance:

"Sois grande, ô ma patrie,

Et ne compte point les morts;

pour toi, ma bien-aimée

Aucun mort ne sera de trop!".

Le Romain Horace et l'Allemand Hölderlin sont en fait des fils posthumes de Tyrtée, Spartiate d'adoption, qui, dès le VIIième siècle avant no-tre ère, proclamait son mépris pour l'homme, fût-il par ailleurs de qualité ou de haut rang, qui ne fît pas ses preuves sur un champ de bataille. Voici les premiers vers d'une élégie à laquelle se réfère explicitement Platon dans son dia-logue Des Lois  (629, a-e):

"Je ne ferais nulle mention ni ne tiendrais compte d'un homme,

Quand il serait couronné à la course ou à la lutte,

Aurait la taille et la force d'un cyclope,

serait aussi rapide que le vent de Thrace,

Serait plus beau que Tithonos

Et plus riche que, jadis, Midas et Kinyras;

quand il serait de sang plus noble que Pélops, fils de Tantale,

et aurait la magie du verbe d'Adraste,

et serait grand en toutes choses,

s'il n'est pas grand dans la tourmente du combat!

Car il ne sera pas brave à la guerre

Celui qui ne supporte pas de regarder la tuerie sanglante

Et n'attaque pas l'adversaire

en l'affrontant de près.

C'est la vraie vertu, le plus beau et le meilleur des prix

Que le jeune sang puisse un jour conquérir (1)".

L'Etat guerrier

Les vers de Tyrtée, Spartiate d'adoption, nous rap-pel-lent sans équivoque possible que Sparte fut un Etat guerrier au sens le plus vrai du terme. Un Etat enca-serné, a-t-on pu dire, un Etat pratiquant l'élitisme eu-géniste et dont certains as-pects évoquent le commu-nisme de guerre. Le mo-dèle de la politeia  selon Pla-ton, aristocrate athénien mais spartanophile. Une synthèse appa-remment perverse entre prussianisme et so-cia-lisme. Et le cauchemar de tous les libéraux, de Wil-helm von Humboldt à Karl Popper et à Hen-ri Marrou.

Il ne faut pas s'illusionner: toutes ces descrip-tions, même exagérées dans les détails, même caricaturales (et caricaturées pour les besoins de la polémique) ont un fond de vérité. Athènes exceptée, aucun autre Etat antique ne nous est mieux connu que celui des Spar-tiates qui se nom-maient eux-mêmes Lacédémoniens (le Spartiate était l'homme libre, citoyen à part entière). Les anecdotes les plus effarantes reposent sur de so-lides témoignages. Il est hors de doute que Spar-te, même et surtout à une époque avancée de l'his-toire an-tique, était, comparée à Athènes, un Etat extrême-ment archaïque, rude et xénophobe. Et il est indéniable que jusqu'à la fin, cet Etat a veillé jalousement et or-gueilleusement à préser-ver cette différence-là. Inutile de broder sur l'orgueil ostentatoire, sur la morgue du Spartiate, fût-il citoyen ordinaire. Chaque Spartiate était moi-tié roi moitié brigand. Les textes authen-ti-ques de Tyrtée lui-même sont là pour infirmer toute tentative de banalisation. Tyrtée nous mon-tre sans conteste un Etat où le guerrier l'empor-tait sur le bel esprit et le marchand. Toute la cul-ture était axée sur la chose mi-litaire et l'idéal était le sous-officier d'active. Quand une mère avait perdu son fils à la bataille, elle refusait la-co-niquement (c'est le cas de le dire) toutes con-do--léances: "Je n'ignorais pas qu'il était mortel", et ce que proclame solennellement le choeur de la pièce de Schiller Die Braut von Messina:  "La vie n'est pas le bien suprême" (acte 4, scène 10), était, à Sparte, le b.a.-ba de la formation po-li-tique de n'importe quelle recrue. L'épigramme du lyrique Simonidès dédié aux Spartiates tom-bés aux Thermopyles exprime lapidai-rement ce que l'on attendait du soldat:

"Passant, va dire à Sparte

Que tu nous as trouvés, gisants

Conformément à ses lois".

Vouloir minimiser a posteriori la sévérité spar-tiate est une entreprise vouée à l'échec. La civi-lisation lacédé-monienne n'était guère littéraire mais très athlétique. A Sparte, la poésie fut un produit d'importation, comme en témoigne l'exem-ple des trois grands poètes, Tyrtée, Ter-pandros et Thaletas: le premier venait d'Athènes, le second d'Antissa (Ile de Lesbos), le troisième de Crète. Sparte les fit venir comme poètes offi-ciels, un peu comme la Prusse prendra à son service les Souabes Hegel et Schelling, le Baron de Stein, origi-naire de Nassau, le Hessois Sa-vigny et le Saxon Ranke. La cuisine était aus-tère, c'était le cauchemar des gosiers corinthiens, crétois ou sybarites. Les dis-tributions collectives de "soupe au sang" étaient considérées, hors de Sparte, comme un vomitif.

Un système d'éducation terrible

A sept ans révolus, les enfants appartenaient à l'Etat qui prenait en charge leur éducation. Les garçons, no-tamment, devaient gravir, échelon par échelon, les étapes de la hiérarchie dans les formations de la jeu-nesse d'Etat. La musique et la poésie étaient considé-rées comme des acces-soires de la pédagogie d'Etat. L'autonomie du sens et du goût esthétiques n'était guère prisée: la danse réduite à un exercice gymnique, la poé-sie au rôle d'auxiliaire de l'éducation politique et la musique à un instrument de drill et de dres-sage. Outre le chant choral, musique militaire et chansons de marche au son de la flûte (qui jouait dans l'Antiquité, on le sait, le rôle de nos tam-bours et trompettes): tel était le parnasse spar-tiate.

La vertu suprême était le patriotisme poussé jus-qu'au sacrifice et la subordination des intérêts in-dividuels au salut de l'Etat. Obéissance, endurcis-se-ment des corps et des âmes, frugalité et dis-cipline faisaient partie des règles de vie les plus na-turelles. La discipline, surtout, imprégnait et mo-delait toutes choses: celle des enfants et des adul-tes, discipline à l'école, discipline à table, discipline du corps et de l'esprit, de la concep-tion à la tombe: c'était l'art de gouverner à la spartiate. Est-il besoin de souligner que dans cet-te polis dorienne, la pédérastie, amours "inver-ses d'homme à homme", comme disait Hans Blü-her, était omniprésente? Force est de la considé-rer comme une devotio lacedaemonia,  spéci-fique d'un Etat organisé en Männerbund  (con-frérie virile). Dans ce domaine comme dans d'au-tres, n'enjolivons rien.

Le Taygète

Même observation à propos d'une loi que Plu-tarque fait remonter à Lycurgue, le législateur semi-légendaire de Lacédémone: à sa naissance, l'enfant est examiné par les Anciens du clan. S'il est jugé sain, bien fait et vigoureux, il est dé-claré digne d'être éduqué. Si en re-vanche, le Con-seil des Anciens le trouve malingre et mal constitué, l'enfant est "exposé" au fond d'un précipice rocailleux du Taygète. Car "ils pensaient que pour un être incapable, dès le début de sa vie, de se développer et de devenir sain et fort, il vaut mieux ne pas vivre du tout car il ne sera utile ni à lui-même ni à l'Etat" (Lycurgue, 16).

De l'eugénisme spartiate à l'avortement libéral

Cette loi est à mes yeux la seule dans la constitution de Sparte qui devrait trouver grâce auprès des tenants ac-tuels de l'ordre libéral-dé-mo-cratique, quoique pour des raisons opposées: les Lacédémoniens formés à l'école de Lycurgue avaient une pensée eugéniste alors que nos parasites obéissent à des motivations essentielle-ment individualistes et hédonistes: ce n'est pas pour "améliorer la race", c'est pour augmenter leurs chances d'"épanouissement personnel" qu'ils souscri-vent à l'adage selon lequel "être né ne confère aucun droit à la vie": de nos jours, le "citoyen adulte" ne se laisse nullement prescrire si l'enfant venu au monde doit vivre ou non. Le Conseil des Anciens, institution "réactionnaire", a été remplacé, en ce qui concerne le sort du nouveau-né ou du foetus, par l'auto-détermi-na-tion du "conseil parental" et, si ur-gence il y a, par le droit de la mère dans le sein de laquelle se développe, tel un abcès, le fruit de ses en-trailles. La possibilité, admise par la société, de prati-quer, comme à Sparte, l'"exposition" de l'enfant (à ce détail près que l'opération est chronologiquement avancée au stade du foetus) contraste favorablement avec les méthodes "barbares" de Sparte où la mort n'était même pas intra-utérine. L'avancement progres-sif du meurtre silencieux à une période comprise entre le premier et le si-xième mois de la grossesse, et son remplace-ment, au niveau du vocabulaire, par un doux eu-phémisme, l'"interruption de grossesse" (IVG), sont considérés comme des acquis d'une civili-sation qui paraît avoir définitivement surmonté Sparte. C'est ainsi qu'en Allemagne par exem-ple, on considère comme un "progrès" le meurtre d'enfants par le Ge-bärstreik  ou "grève des ventres" bien que cette grève-là fasse cha-que année mille fois plus de victimes en-fantines que n'en fit, en sept siècles d'histoire spartiate, l'exposition rituelle sur le Taygète...

 

La liberté de la femme

La sympathie du démocrate sincère est toujours allée à Athènes, jamais à Sparte. L'homme de par-ti, l'honnête homme respectueux de l'ordre libéral-démocratique, se voudrait Périclès, au moins en miniature. Personne, en revanche, ne souhaite passer pour un héritier ou un disciple de Lycurgue! Athènes est synonyme, on le sait, de Lumière, de Culture, de Démocratie et Périclès est la superstar de ces divinités éthérées. Par contre, la Sparte de Lycurgue passe pour avoir été pire que la Prusse frédéricienne, pres-que une préfiguration an-tique de l'Etat national-so-cialiste!

"Louons ce qui nous affaiblit et nous désarme! Mé-fions-nous de ceux qui nous parlent d'union, de force, de grandeur, de discipline, de cohésion! Ou nous ris-querions de glisser vers le fascisme —et Hitler de re-venir!". C'est à peu près le discours que tient, la main sur le coeur, l'Occident démocratiste et bien-pensant. L'objur-gation, tantôt articulée du bout des lèvres tantôt hurlée, se gonfle démesurément dans le bour-don-ne-ment des médias. Il existe donc bien ce que j'ap-pe-lerais une réaction émotionnelle antispar-tia-te. Elle nour-rit la lutte contre tout ce qui, de près ou de loin, pourrait évoquer l'ascèse, l'hé-roïsme ou la disci-pline. Se recommander de Spar-te, admirer Sparte comme paradigme d'éta-tici-té sévère, certes, mais puis-sante et capable, voilà qui, aujourd'hui, choque. Comme pou-vait choquer, voici cinq siècles, le fait de nier la tri-nité divine ou l'incarnation du Christ.

Et pourtant, sur les traces de Plutarque et de Platon, j'ai rassemblé ici quelques bons points en faveur de Sparte. Il faut tout d'abord signaler que dans cette Sparte au "conservatisme" rigide, les femmes pou-vaient faire tout ce qui leur était strictement interdit à Athènes-la-libérale. A La-cé-dé-mone, les femmes étaient beaucoup plus libres que les hommes. Non seulement en amour mais en affaires. Elles jouissaient de droits in-connus partout ailleurs. Au IIIième siècle, par exem-ple, les femmes spartiates possédaient plus de richesses (y compris des biens fonciers éten-dus) que leurs maris, leurs frères ou leurs amants (Plutarque, Agis,  5, 23, 29). Aristote, déjà, reprochait à Ly-curgue de n'avoir pas extir-pé le "dérèglement et le matriarcat" des femmes spartiates (Politique,  2, 1270a, 6). A l'étranger habitué à un strict et exclusif patriarcat, la ville de Sparte offrait presque le spectacle d'un Etat "exotique", dominé par les femmes (Plu-tarque, Numa,  25,3): "Les femmes spartiates ont sans doute été assez irrévérencieuses et se sont sans doute comportées de façon extrêmement virile, surtout à l'égard de leurs maris puisqu'à la maison, elles déte-naient un pouvoir sans partage et qu'à l'extérieur elles intervenaient en toute liberté dans les affaires d'Etat les plus impor-tantes". Et pourtant, elles n'avaient rien de spa-dassins hirsutes et grivois: leur charme un peu abrupt était proverbial dans toute l'Hellade. Leur li-berté semblait excessive même aux Athéniens les plus "progressistes" et les plus "éclairés".

La rigueur d'un Etat guerrier résolument viril était adoucie par la grâce souriante, la malice, l'élégance spontanée de ses jeunes femmes qui, contrairement à leurs soeurs d'Athènes, avaient accès aux exercices sportifs et gymniques. Com-me les hommes, les fem-mes lacédémo-nien-nes étaient célèbres pour leur sens de la répartie et leur laconisme (le mot, d'ailleurs, nous est resté: Sparte est située au centre de la Laco-nie). Plu-sieurs anecdotes témoignent de cette vivacité de l'esprit, de cette concision propres aux Spartia-tes. Comme une étrangère disait à Gorgo, épou-se de Léo-nidas, roi de Sparte: "Vous autres La-cédémoniennes êtes bien les seules à pouvoir dominer vos maris", Gorgo répliqua avec su-perbe: "Après tout, c'est nous, et nous seules, qui les mettons au monde!" (Plutarque, Lycur-gue,  14, conclusion).

Sans Sparte, pas d'Athènes

Mais concluons. Nous venons d'inscrire le nom de Léonidas. Nous avions, au début de ce texte, cité Si-mo-nidès célébrant les Lacédémoniens morts aux Ther-mopyles face à la supériorité numérique des Perses: "Voyageur, va dire à Spar-te...". Disons-le la-conique-ment: si l'on con-si-dère la civilisation grecque comme le fon-dement permanent de la culture euro-péenne, on ne peut ignorer Sparte. Toute la culture de la Grèce classique, que l'on identifie volontiers à Athènes, n'aurait jamais pu s'épanouir si un peuple de guerriers, comparativement prosaïque, discipliné, en odeur de quasi barbarie, n'avait pas combattu jusqu'à la mort, pour sauver l'Hel-lade, aux Thermopyles, à Sa-la-mine et à Platée. Les victoires militaires, qui ne fu-rent possibles que grâce à la présence spartiate, ont alors conquis, préservé et élargi cet espace où purent s'épanouir librement le théâtre grec, la philo-so-phie grecque, la science grecque et même la démocratie grec-que. C'est ce qu'il faut se garder d'oublier.

Regardons Sparte, presque étrangère dans sa rudesse. Cette société a pu pervertir jusqu'à la caricature des traits qui ont existé, à un degré moindre, dans toute polis grecque. Mais surtout, Sparte, qui incarnait au plus haut point toutes les potentialités de la polis, nous rappelle brutale-ment combien toute l'Antiquité clas-si-que nous apparaîtrait étrangère si nous cessions d'y pro-jeter notre propre humanisme. Sparte nous fait éga-lement saisir le sens du mot "politeia" à l'état chi-miquement pur: l'Etat, "le plus froid de tous les mons-tres froids", comme l'affirme le Zarathoustra de Nietzsche. On peut ne pas aimer Sparte. Mais qui-con-que se sent une attirance pour l'héritage grec doit se souvenir que toutes ces merveilles, toute cette splen-deur, tout ce qui, en nous, "parle" et nous en-thou-siasme (au sens étymologique du terme), que tout cela n'a pu s'épanouir et se déployer que dans un monde soustrait à la menace du despotisme oriental par le sacrifice suprême de quelques dizaines de milliers d'hommes.

Mais Sparte nous remet aussi en mémoire les fonde-ments de la culture européenne sur les-quels on fait si volontiers l'impasse aujourd'hui: l'espace où cette cul-tu-re a pu éclore n'était certes pas défendu par des déserteurs ou des objecteurs de conscience! Il était dé-fendu par des soldats résolus face à la supériorité nu-mérique écrasante de l'adversaire. Les meilleurs guer-riers, la plus belle discipline militaire, étaient à Lacé-démone. Après la victoire sur les Perses, aucun équi-libre harmonieux ne put s'établir entre les deux types de société grecque qu'incarnaient respective-ment Spar--te et Athènes. Peut-être fut-ce là la grande tragédie de la Grèce antique. Culturellement, Sparte fut une im-passe. Mais Athènes elle-même, la "voie" athénienne, nous le pres-sentons aujourd'hui, pouvait-elle se poursuivre en ligne droite jusqu'à nous?

Peut-être, après tout, la culture n'est-elle qu'un inter-mède, un gaspillage stérile d'énergie sur l'arrière-plan des espaces cosmiques infinis. Un certain défaitisme gagne autour de nous. Il déclare publiquement que l'orientalisation de l'Eu-rope, si elle s'était accomplie beaucoup plus tôt, nous aurait épargné bien des maux. Pour ce genre de discours, les victoires grecques sur les Perses ne signifient donc rien. Mais c'est déjà une autre histoire. Il reste que Sparte nous rap-pelera tou-jours, de façon lancinante, une vérité éternelle, large-ment occultée de nos jours: sans un certain degré de "spartitude", non seulement aucun Etat n'est possible, mais aucune civilisation ne peut vivre et… survivre.

Il faut redécouvrir notre héritage lacédémonien.

Gerd-Klaus KALTENBRUNNER.

(texte paru dans Criticón, n°100, März-Juni 1987; traduction française: Jean-Louis Pesteil; adresse de Criticón: Knöbelstraße 36/V, D-8000 München 22; prix de l'abonnement annuel (six numéros): DM 57; étudiants: DM 38).

Note

(1) Dans le dialogue de Platon, Clinias ajoute: "C'est un fait que (ces poèmes) sont venus jusque chez nous, im-portés de Lacédé-mone" (ndt).  

samedi, 23 août 2008

Dionysische wijsheid

Dionysische wijsheid